A proposito di Sara e di Adolescence (e di quel che siamo diventati).
Avevo appena finito di vedere la serie tv “Adolescence”, quella che sta facendo discutere sociologi, studiosi, psicologi, famiglie, quando a Messina è stata uccisa Sara Campanella. Sara, 22 anni, occhi pieni di luce spalancati sul futuro, studentessa a un passo dalla laurea, uccisa da un collega di studi con cinque coltellate. Stefano Argentino l’ha seguita all’uscita del Policlinico alla fine di una lezione e dopo averla lasciata agonizzante è tornato a casa a Noto.
Chi ha visto Adolescence sa quanto spaventosamente simili siano il femminicidio della serie Netflix e quello di Sara: il tredicenne Jamie segue la compagna di scuola Katie e dopo una lite la uccide con sette coltellate. Poi torna a casa.
Quando Sara il 31 marzo muore, un’altra 22enne, Ilaria Sula, è già morta da alcuni giorni ma il cadavere sarà ritrovato il 2 aprile rinchiuso in una valigia gettata in un dirupo. Ilaria è stata uccisa dall’ex fidanzato con tre coltellate, mentre si trovava all’interno dell’abitazione dell’assassino. Dopo averla uccisa Mark Samson ha continuato la vita di ogni giorno. All’inizio ho pensato che il virtuale (il film) avesse fatto irruzione nel reale poi mi sono resa conto che è accaduto il contrario.
Quando la realtà supera la cinematografia.
Nella serie Netflix alcuni particolari sono stati deliberatamente accentuati, come l’età di vittima e assassino (14 e 13 anni) e la figura di Jamie, che appare indifeso, spaurito, un bravo ragazzo. La vittima, Katie è invisibile, al punto che non c’è neanche un’attrice che la interpreti. E’ stata “cancellata”.
Nella vita reale l’età dei femminicidi si sta abbassando: Sara Campanella, Ilaria Sula, Giulia Cecchettin avevano 22 anni e chi le ha uccise è un coetaneo.
Nel film i genitori di Jamie sono incapaci di comprendere e quasi di “riconoscere” il figlio, eppure “l’abbiamo fatto noi”. Nella vita reale ci sono due mamme, quella di Stefano Argentino e quella di Mark Samson che li aiutano nelle fasi successive ai delitti. Adolescence fa paura perché costringe a guardare cosa siamo diventati. Abbiamo distolto lo sguardo dai nostri figli, spostato altrove.
Nelle scene finali del film il padre, che è un padre normale, un marito normale, un lavoratore normale, dice: “Era in camera sua. Pensavamo che lì fosse al sicuro”.
Un pensiero quasi banale. Invece no. Abbiamo smesso di ascoltarli, di “percepirli”.
Il covid e i lockdown hanno reso tangibile un fenomeno: quello dei minori lasciati soli davanti a un pc, un tablet, uno smartphone, uno schermo.
Stefano Argentino insisteva con Sara “Perché non mi sorridi più come prima?”. Nella serie Netflix Jamie dice alla psicologa: “Posso chiederti una cosa? Io ti piaccio? Mi trovi brutto?”.
La serie tv ci racconta quel che non sapevamo e che non abbiamo visto: dagli “incel” ai linguaggi in codice per i quali persino gli emoji assumono un significato diverso rispetto all’apparenza. E’ agghiacciante che nella serie tv non si sappia nulla della vittima. Jamie la cancella come in un video gioco, come quando elimini qualcuno da una chat, dagli amici di Facebook. Sembra persino non aver compreso cosa ha fatto.
Abbiamo perso il rispetto per la vita. Lo si vede anche con gli innumerevoli omicidi e accoltellamenti che coinvolgono giovanissimi.
Nelle motivazioni della sentenza della Corte d’Assise di Venezia che ha condannato all’ergastolo Filippo Turetta per la morte di Giulia Cecchettin viene esclusa l’aggravante della crudeltà. Secondo i giudici con le 75 coltellate l’assassino non voleva fare scempio della vittima ma era “inesperto”. Non ha smesso fin quando non ha avuto la certezza di averla uccisa. Cancellata.
Qualcosa di terrificante è accaduto nelle nostre generazioni di eterni Peter Pan, quasi invidiosi della gioventù dei figli, da essere diventati incapaci di educarli al no, al fallimento, alla necessità di cadere e farsi male. Per rialzarsi. Crescere.
I genitori di questi assassini hanno circa cinquant’anni, rappresentano la generazione successiva a chi si è battuto per l’aborto, il divorzio, i diritti. Cinquantenni cresciuti impegnandosi contro le violenze, per le libertà, la parità di genere. Eppure questa generazione non è stata in grado di educare i figli al rispetto per la vita, al sentimento, al valore dell’altro come persona e mai come oggetto o mezzo per raggiungere un fine. Educarli all’altro che non è un profilo social o un selfie. Non è finto, ma è fatto di carne, di ossa, di cuore, di anima.
L’esempio è importante. Vediamo genitori prendere a pugni docenti rei di aver dato brutti voti ai pargoli o insultare arbitri e giocatori in campo, incitare figli contro gli avversari. Ci siamo creati l’alibi di saperli al sicuro nella loro camera ma quando siamo a tavola difficilmente solleviamo gli occhi dal nostro smartphone. Con il registro scolastico elettronico sappiamo in quale aula sono fisicamente, ma non cosa gli accade dentro. Li abbiamo cresciuti coltivando il loro ego, trasformandoli in sovrani, compiacendoli, pensando che così li avremmo protetti dalle sofferenze.
Adesso ci accorgiamo che non conoscono il valore del no, non si assumono le responsabilità dei loro comportamenti e delle conseguenze di quei gesti. Siamo stati noi i primi ad autoassolverci, a minimizzare i loro errori. Tocca a noi assumerci la responsabilità del cambiamento, ammettendo d’aver fallito. Lo dobbiamo a Sara, Ilaria, Giulia, alle troppe vittime ed alle loro meravigliose famiglie.
E’ un dovere collettivo perché accanto alle famiglie di chi cresce nella forza dei valori ci sono anche quelle degli assassini e non automaticamente sono famiglie violente, disfunzionali, mostruose. “Pensavamo che nella sua cameretta fosse al sicuro”.
Invece nelle vite di questi bambini entrano video giochi in cui più uccidi più sali di livello e chi muore risorge, prevalgono modelli basati su cosa avere, irrompono bulli o intime paure, la dipendenza dall’approvazione altrui, il reale è una bolla in cui la violenza si nasconde dietro un innocuo emoticon.
E’ da noi che dobbiamo iniziare. Ci piace dirci che siamo tutti i genitori di Sara. Temo che senza accorgercene siamo anche i genitori di Stefano.


